Il cosiddetto decreto Balduzzi, decreto legge 13 settembre 2012, n. 158 convertito con modificazioni dalla legge 8 novembre 2012, n. 189, nasce con la finalità di “promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute” attraverso la riorganizzazione e l’efficientamento del Servizio sanitario Nazionale e tenendo conto, come si legge sul sito del Ministero della Salute, del contenimento della spesa sanitaria e farmaceutica.
Il provvedimento incide, talvolta in modo incompleto e migliorabile, su diversi aspetti del servizio sanitario: dal riordino dell’assistenza territoriale alla governance del personale dipendente e in particolare del personale medico, dalla riduzione dei rischi sanitari connessi all’alimentazione e alle emergenze veterinarie al completamento della riqualificazione e razionalizzazione dell’assistenza farmaceutica.
Nonostante le intenzioni iniziali del Ministro Balduzzi che aveva dichiarato la disponibilità a confrontarsi in sede di conversione parlamentare, l’iter legislativo del decreto non è stato produttivo a causa della preclusione da parte del Governo a qualunque forma di modifica del testo. Sia alla Camera che al Senato, infatti, è stata posta la questione di fiducia con l’alibi dei tempi stretti, in quanto tutti i decreti legge devono essere convertiti in legge entro 60 giorni dalla loro pubblicazione, pena la decadenza. In realtà, le forze politiche con la garanzia di una terza lettura parlamentare rapida avevano concordato e condiviso otto proposte di modifica, migliorative del testo, che però non sono mai state discusse.
Non è un caso che quella al Senato sia stata una delle fiducie più minoritarie per il Governo Monti. Numerosi sono stati i segni di protesta e i no dei parlamentari medici a una visione economicistica del diritto alla salute. Nella mia veste di relatore del provvedimento ho invitato più volte l’Esecutivo a mettere la sanità tra le priorità del Paese, nell’ottica che il comparto salute non può essere solo un capitolo di spesa, ma è soprattutto un investimento per i cittadini.
Potrei dire che, almeno fino ad oggi, questi appelli sono caduti nel vuoto visto che tutto ciò che si è rilevato mancante nel decreto, per la stessa ammissione del Ministro, come i percorsi di salute, la sicurezza del cittadino in un giusto rapporto con il medico, la riduzione dei tempi d’attesa nei pronti soccorso e un reale recupero della fiducia del cittadino nei confronti del Servizio Sanitario Nazionale, non è stato né allora né successivamente accolto.
Si era parlato negli ultimi due mesi dell’anno di fare confluire i correttivi, tanto proclamati e auspicati quanto repentinamente abbandonati, all’interno del disegno di legge Fazio sulla sperimentazione clinica, del quale ero relatore e che giaceva in Commissione sanità dalla fine di ottobre 2011. Ma anche in quell’occasione è mancata la volontà di difendere il nostro sistema di cure e di dimostrare operativamente che si poteva intervenire a favore della sicurezza del paziente, della tutela della professionalità sanitaria e del conseguente importante risparmio che ne sarebbe derivato. Si è preferito andare avanti sul decreto di riordino delle province, destinato di lì poco a naufragare, invece che procedere alla correzione dell’incompleto e dannoso decreto Balduzzi. Mentre si tagliavano i fondi per la salute, si autorizzava in tal modo a spendere 15 miliardi di euro per la medicina difensivistica senza risolvere il problema del contenzioso medico legale.
Tra le questioni più urgenti avevamo indicato la revisione dei capitoli su rischio clinico e assicurazioni e un’apertura maggiore sullo sblocco del turnover con la conseguente disponibilità di personale per le strutture. Mi soffermo in questa sede sul primo aspetto e in particolare sulle norme che riguardano la responsabilità professionale del personale sanitario. L’articolo 3 del decreto 158 del 2012, piuttosto che semplificare, ha creato ulteriore confusione sul tema della colpa medica, non chiarendo il problema fino in fondo. L’affermare che l’«esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente di colpa lieve» rimanda al concetto che, dal punto di vista penale, la colpa può essere graduata se il personale medico e sanitario rispetta linee guida e best practices, ma non dice nulla sul perimetro in cui il sanitario deve operare.
Mancando ancora nella legislazione italiana la definizione di “atto medico”, che stabilisca come il trattamento medico-chirurgico, eseguito in modo adeguato a esigenze terapeutiche, con il valido consenso del paziente e in conformità alle regole dell’arte non si consideri un’offesa all’integrità fisica, non esiste il fondamento della liceità della condotta del medico chirurgo e quindi della sua irrilevanza penale. Questo principio generale è di grande importanza e costituisce un parametro interpretativo vincolante per la giurisprudenza, si tratta di un intervento necessario che il legislatore avrebbe potuto inserire nel testo del decreto per conferire un margine di certezza al concetto dell’atto medico. Purtroppo, malgrado gli inviti e gli emendamenti presentati, non si è tenuto conto della portata innovativa di tale definizione e della ricaduta positiva che ciò avrebbe avuto sulla serenità dell’operatore sanitario nel conoscere le norme che regolano la sua attività, oltre che rappresentare una modalità primaria di controllo del rischio clinico.
In secondo luogo, la formulazione proposta dal citato articolo 3 ha lasciato aperta la questione della responsabilità civile per dolo e colpa grave. Nulla è cambiato riguardo la copertura assicurativa a carico della struttura sanitaria per danni causati a terzi dal personale sanitario medico e non medico, né sul fatto che le strutture debbano prevedere obbligatoriamente l’assicurazione anche per colpa grave e possano esercitare diritto di rivalsa verso i dipendenti in caso di dolo. Si rimanda ad un successivo decreto attuativo la disciplina dei requisiti minimi per i contratti assicurativi e l’istituzione di un fondo di rischio connesso. Ma anche in questo caso non c’è stato alcun riferimento al diritto del danneggiato all’azione diretta per il risarcimento del danno nei confronti dell’assicuratore.
Infine, sotto il profilo della responsabilità appare sicuramente un passo in avanti l’introduzione della gestione e del monitoraggio dei rischi sanitari all’interno delle aziende sanitarie, di cui all’articolo 3-bis. Tuttavia tale formulazione risulta insufficiente se consideriamo che non viene esplicitato il modo in cui debba essere organizzata operativamente la gestione. Tra le proposte elaborate avevamo previsto l’istituzione di unità dedicate al risk management, che includendo competenze di medicina legale, ingegneria clinica e fisica sanitaria, consentisse un maggiore controllo dei rischi e l’adozione di soluzioni e procedure concrete per superare le situazioni potenzialmente critiche col duplice scopo di ridurre gli errori e la malpractice e favorire l’efficienza del sistema sanitario nel suo insieme di risorse umane e tecnologiche.
Se nel complesso molte delle norme contenute nel decreto n. 158 sono da ritenersi lacunose, non vi è dubbio che possiamo dirci soddisfatti della nuova disciplina sui CTU. Si è stabilito, finalmente, che i periti e i consulenti tecnici d’ufficio di cui si avvalgono i giudici nei processi in materia di responsabilità medica debbano avere un’esperienza qualificata e idonea nella disciplina specialistica interessata nel procedimento in corso. Possiamo considerare un successo anche l’aggiornamento quinquennale degli albi e il coinvolgimento delle società scientifiche, ma di fronte al traguardo di una sanità migliore questo è solo l’inizio.
sen. Michele Saccomanno
Presidente Nazionale Nuova ASCOTI